In difesa dell’astensione

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Io non sono un grande astensionista, ho votato quasi sempre, e voterò anche a queste elezioni; però ho sempre trovato fastidioso l’atteggiamento assiomatico con il quale, a ogni elezione, c’è chi fa proclami – spesso aggressivi, quasi insultanti – contro le persone che decidono di astenersi. Colpisce la mancanza di argomenti di chi sostiene la necessità di votare sempre: chi argomenta qualcosa di diverso non riceve una risposta alle proprie posizioni, ma la reiterazione dell’assioma iniziale (e così mi aspetto che le obiezioni a questo post conterranno argomenti a cui viene risposto già nel testo: scommettiamo?), segno che “bisogna votare sempre” è solamente una massima insegnataci da bambini.

Certamente ci sono persone che si astengono per ragioni irrazionali, come preservare la propria coscienza: votare è uno strumento, non ci si “sporca” a votare un partito che non veicoli precisamente le nostre idee. Ma anche le ragioni di chi sostiene che bisogni votare sempre appaiono altrettanto irrazionali.

Chi vota senza sapere
Non c’è dubbio che astenendosi si delega agli altri elettori. Questa, in alcuni casi, è una scelta sensata: per persone che non seguono la politica, non conoscono gli schieramenti e i programmi, i candidati e le idee in campo, quella dell’astensione è semplicemente una scelta di onestà. Possiamo decidere che sbaglino a non sapere cosa succede nel loro Paese, ma dal momento che le cose stanno così perché dovrebbero esprimere un voto – che vale quanto quello delle persone più consapevoli e informate – su un argomento di cui non hanno alcuna competenza? Fa ridere, poi, che a criticare gli astensionisti siano spesso le stesse persone che si lamentano dell’ignoranza degli elettori di altri partiti (se l’unica cosa che sai dire è “i politici rubano tutti” forse è meglio non votare, no?).

Chi vota per convenienza
Ci sono poi due grandi categorie di persone che votano con una certa consapevolezza: chi vota per convenienza e chi vota per ideologia, e infinite commistioni delle due cose. I primi votano un partito perché pensano che le istanze portate avanti siano più convenienti per loro: meno tasse, più difesa di una certa categoria, più diritti a questa o quella minoranza. Il colmo è che votare non è un’operazione conveniente (è un paradosso abbastanza noto): qualunque sia lo sforzo profuso, in termini di convenienza non ne vale la pena. Non parlo di fare campagna elettorale o allestire banchetti, ma anche il solo prendere la macchina o perdere mezzora del proprio tempo ha meno efficacia, “costa di più”, dell’importanza che ha il proprio minuscolo voto su diverse decine di milioni nell’avanzare questa o quella politica.

Chi vota per ideologia
Ideologia, qui, non ha alcun senso spregiativo. Tutti abbiamo le nostre idee e pensiamo che siano le migliori (altrimenti ne avremmo delle altre). Tuttavia, anche chi vota per ideologia dovrebbe tenere presente l’irrilevanza che l’operazione ha a livello macroscopico: verosimilmente, nel corso della nostra vita, il nostro voto non deciderà mai, neppure una volta, un’elezione. In realtà uno dei motivi per i quali io vado a votare è, candidamente, narcisista: mi piace seguire le elezioni, mi piacerebbe vedere dei dibattiti (fatti davvero), mi piace il giorno delle elezioni, mi piace andare nel seggio e sorridere allo scrutatore, mi piace la suspense delle ore successive, mi piace seguire i risultati, mi piace sentirmi importante.

Ma se tutti facessero così
L’argomento “se tutti facessero così” è, come sappiamo, logicamente instabile (se tutti facessero il medico, moriremmo di fame: è immorale fare il medico?): le scelte che facciamo sono ragionate e articolate sui dati di realtà, se cambiano questi dati, cambiano anche le scelte. È chiaro che se tanti facessero così, le cose cambierebbero: al diminuire dei votanti aumenta l’importanza del proprio voto. In realtà, poi, pochi fanno così: l’Italia è un delle democrazia con l’affluenza elettorale più alta (in alcuni posti è metà della nostra), e non diremmo che questo ci renda un Paese più civile.

Votare è un messaggio positivo
Nella storia italiana le elezioni dove l’affluenza è salita sono state quelle dove la campagna elettorale è stata peggiore, dove c’è stato più scontro e si è alimentata la paura dell’avversario. Del resto è chiaro che più ci si sente in emergenza, in pericolo, più si è portati a votare: non è un caso che, nelle grandi democrazie occidentali – dove si vive relativamente bene, le istituzioni sono forti, e un cambio di maggioranza non è una questione di vita o di morte – l’affluenza sia costantemente calata negli ultimi quarant’anni. L’argomento per il voto come necessità è quindi opinabile, l’importanza che ciascuno di noi dà al proprio singolo voto è una questione culturale, che ci è stata insegnata e che abbiamo recepito senza domandarcene il perché. Magari pensiamo che una società che insegna questa bugia sia una società migliore, ma certamente non corrisponde alla realtà.

Il meno peggio
Anche trascurando le considerazioni precedenti e volendo assumere l’importanza del proprio voto rispetto ai grandi numeri, l’argomento di chi sostiene la necessità del voto sempre e comunque è tortuoso. L’argomento è molto simile a quello sul voto utile: bisogna votare il meno peggio, perché c’è sempre una scelta migliore fra due opzioni e quello che conta è l’influenza che il proprio voto ha. Questa considerazione sottovaluta proprio la nulla influenza sulla politica che si ha votando così. Non c’è dubbio che chi vota per, letteralmente, “partito preso” non influenzerà mai le decisioni del partito in questione: se lo voto qualunque cosa faccia, un partito potrà spostarsi trascurando completamente le mie idee (quelle che motivavano il mio voto).

Il quadro politico è uno spazio geometrico nel quale votiamo il partito che ci è meno lontano. Un grado di compromesso è necessario e ragionevole. Tuttavia, in una situazione nel quale il partito meno lontano è molto più vicino agli altri partiti che alle nostre posizioni, votarlo è illogico: ciò che rende quel partito migliore degli altri ci interessa molto meno di quello che lo rende diverso da noi (e più simile agli altri partiti). Se io penso 2 e i partiti che posso votare esprimono 7, 8 e 9, non ha senso votare 7, perché con il mio voto esprimerò la volontà del 7. Astenersi significa manifestare la necessità che quel partito si sposti verso il 2 o che un altro partito (anche uno nuovo) ne raccolga le istanze.

È una banale questione di teoria dei giochi, se c’è un ente che vincola una ricompensa alla soddisfazione di un requisito e uno che garantisce la ricompensa indipendentemente, l’attore in questione seguirà i requisiti – vincolanti – del primo per ottenere due ricompense anziché una. Del resto tutti noi, anche i più ultrà del voto a tutti i costi, abbiamo una soglia di accettabilità oltre la quale ci asterremmo: se tutti i partiti sostenessero la schiavitù per i neri, ne voteremmo comunque uno sulla base di quanto taglia l’Irap?

Quindi
Certo: le circostanze in cui i partiti sono così lontani da noi da rendere le loro differenze insignificanti sono rare. Nella maggior parte dei casi c’è un meno peggio che vale la pena votare. Ma questa è una considerazione personale e politica, non strutturale. Perciò se vi imbarcate nel lodevole impegno di cercare di convincere qualcuno a votare, evitate di dire la sciocchezza che “bisogna votare sempre” o che “astenersi è sempre una scelta idiota”.

Il culo di Bacchiddu

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Il dibattito sul culo (sull’esposizione del) di Bacchiddu è uno dei rari dibattiti nei quali hanno ragione entrambe le parti, e ce l’hanno perché non si parlano. I primi dicono: «ehi, stai facendo una cosa sessista. Staiusando il tuo corpo a fini elettorali», e hanno ragione, al di là della povertà del verbo. I secondi dicono «una donna può fare quello che vuole col proprio corpo», e hanno ragione anche questi.

Il punto, però, è un altro; e forse è ben riassunto nell’«uso qualunque mezzo» con il quale Bacchiddu ha giustificato la pubblicazione della foto. Il sottinteso è, chiaramente, che questo mezzo – il culo – sia in qualche modo “oltre” i mezzi convenzionali, sia per il costo etico (replico un mondo maschilista), sia per il costo personale (mi pesa mostrare il culo). In sostanza, Bacchiddu mostra di sapere che c’è un costo nell’usare il proprio culo a fini elettorali, semplicemente pensa che “il fine giustifica i mezzi”. In altre parole, che questo peso sia meno importante del beneficio che si avrebbe – nella testa dell’autrice – da un voto alla lista Tsipras.

Naturalmente per fare queste considerazioni bisogna postulare due cose: A) Lista Tsipras guadagnerà almeno un voto per l’esposizione del bikini o per le successive reazioni (evidentemente ciò che pensa Bacchiddu); B) l’azione sia stata premeditata, e non sia semplicemente uno scherzo fatto per gli amici (io sono un grande fautore del diritto alla cialtronata, e infatti non farò mai il politico).

È evidente che la gradevolezza di un corpo in bikini sia completamente priva di valore politico (e quindi ogni voto guadagnato in questa maniera è un “trucco”), come è evidente che lo sfruttamento di questo trucco (“ci sono degli uomini stupidi che voterebbero per questo”) non aiuta l’emancipazione femminile. La risposta di Bacchiddu è, evidentemente: non mi importa, il piano economico (per dire una cosa) della lista Tsipras in Europa è più importante del, piccolo, danno che faccio nelle teste di quelle persone lì, rinforzando la loro idea cavernicola dei rapporti uomo-donna (in sostanza: il sesso come qualcosa che la donna concede all’uomo).

In pratica Bacchiddu è Ruby. Sfrutta la mentalità viscida di alcuni uomini per averne un tornaconto. In questo rinuncia a correggerli (piccolo danno alla società), e fa un sacrificio (piccolo danno a sé stessa), per ciò che ritiene un bene più grande. A livello procedurale non c’è alcuna differenza fra mostrare il bikini per guadagnare voti, e fare sesso per uscire dalla povertà. Il fatto che Ruby si sia spinta più in là potrebbe essere dovuto alla mancanza di alternative o al maggior interesse per il risultato (sarebbe interessante chiedere a Bacchiddu se sarebbe disposta a fare sesso con qualcuno per ricevere 1000 voti. E se la risposta è “no”, come credo: perché no?).

E siccome, a occhio, quelli che difendono Bacchiddu criticavano Ruby, e quelli che difendevano Ruby criticano Bacchiddu, penso che – una volta di più – questo dibattito si sia nutrito di partigianerie e difese/accuse d’ufficio, e non di logica e onestà intellettuale.

 

Cambiare idea

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All’inizio di questo blog parlavo spesso di me, delle cose che mi succedevano, delle cose che pensavo; poi ho cominciato a scrivere soltanto di posizioni politiche, etiche, polemiche; potrei tornare a fare come facevo prima.

Perché mi sono reso conto di questa cosa: tanto tempo fa, non mi capacitavo del fatto che le persone non cambiassero idea. Delle volte dicevo o scrivevo delle cose che mi sembravano molto convincenti, e trovavo inconcepibile che le persone mantenessero la propria opinione senza fornirmi (e soprattutto fornirsi) un’obiezione. Molte di quelle idee erano sicuramente sciocche, e se le rileggessi ora mi metterei a cantare (capita anche a voi di mettervi a cantare se pensate alle cose imbarazzanti che avete pensato o fatto in passato?). Ma la questione era di metodo: come è possibile non darsi gli strumenti per ammettere la possibilità di un ravvedimento? Due persone di intelligenza paragonabile, che partono da premesse simili, non possono non giungere a una conclusione condivisa.

Poi ci ho fatto il callo, su come è il mondo là fuori. Mi sono abituato: molte persone sono affezionate alla propria idea, sono più interessate al difenderla che all’avvicinarsi alla verità. Determinano perché pensare una cosa dopo aver deciso cosa pensare. Quando si discute di una cosa capita più spesso che si finisca a discutere di un’altra («e allora tu?», «lo dici perché…», per fare due esempî prezzemolo) che non a risolvere la cosa stessa. Quindi bisogna abituarsi all’idea di arrendersi: se ci sono segnali che una persona non sia disposta a cambiare idea, beh, è inutile continuare a discuterci. Si può parlare d’altro, ma vale la pena lasciare stare quell’argomento.

Ultimamente, mi sono reso conto, c’è stato una terza evoluzione che è al tempo stesso un ritorno alle origini e il compimento di questo percorso evolutivo. Ma è anche dimostrazione di disincanto e, quindi, in ultima analisi di cinismo. Sono stufo. Ho perso di testardaggine, ma anche di generosità. Non ho più quello che Alessio ebbe a definire il mio “fervore speranzoso”. Se concepisci la discussione come un terreno in cui difendere la propria opinione (se pensi che esista una cosa come un’opinione propria), se non hai interesse a convincermi delle tue ragioni e a essere convinto dalle mie – se non t’interessa migliorarti, se non t’interessa migliorarmi – a me non interessa avere un rapporto con te. Così, fra le persone che frequento, ho progressivamente guadagnato la fama di quello che è più disposto a cambiare idea, e quello che è meno disposto a tollerare chi non cambia idea.

Sono incattivito? Probabilmente è così. Anzi: è così. Vivo meglio, ma sono più egoista. Eleggo alcune persone, quelle con le quali – sono stato molto fortunato a incontrarle – si discute anche 2 ore della stessa cosa, non capacitandosi che l’altro non si convinca della mia, o non mi convinca della sua, idea. Poi, sempre, arriva l’epifania: e in un secondo, dopo ore di discussione, si cambia discorso e non se ne parla più, perché il fatto che uno abbia cambiato idea non è un fatto degno di nota, tanto meno un’umiliazione. Sono certamente una persona migliore, ma sono migliorato per me, e non per gli altri: ho lavorato molto su me stesso, ho maturato degli strumenti per elaborare in fretta un necessario cambio d’opinione, ma lo stesso pretendo dagli altri. Il paradosso è che, forse, se incontrassi quel me di qualche anno fa mi starei sul cazzo.

Buon San Valentino, ma non a voi

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L’unica tradizione di questo blog, il post di San Valentino.

Tanti auguri.

Agli unici innamorati al mondo che non possono permettersi di non sopportare questa festa. Che non hanno il diritto di sogghignare dei lucchetti a Ponte Milvio o farsi venire l’urticaria per le strade tappezzate di cuori di peluche rossi. Di ridere delle scritte per terra, o di considerare kitsch le scatole di cioccolatini a forma di cuore.

In Arabia Saudita, e in tanti altri posti del mondo, festeggiare San Valentino è vietato dalla legge. Ti viene a prendere la polizia per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio. Non è una parodia, si chiama veramente così. Perché amarsi è un’idea occidentale.

A tutti coloro per i quali volersi bene è – necessariamente – un atto rivoluzionario, a loro, buon San Valentino.

Elogio di Gervinho

Nell’ormai pluristagionale letargo di questo blog, approfitto di questo post sul pallone, per segnalare una cosa scema che faccio, sempre sul pallone. Ogni sabato, alle 19.30, sono a Super Santos, su Retesport, assieme ad Antonio Conte e Aldo Spinelli (scherzo), a tenere una rubrica che un tempo si chiamava “Oh, ma te lo ricordi questo?”, poi è diventato “Oh, ma to’o ricordi quello?”, e poi è diventato “vi racconto qualunque storia che mi pare in cui c’entri anche periferalmente il calcio”. Di solito si parla di cose da ridere, come giocatori della nostra infanzia con storie assurde. Altre volte no, ma sempre di storie si parla. Se non vi piace il calcio e non vi piace ridere, potete ascoltare questo. Altrimenti tutti gli altri.

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Quest’estate si è chiuso un giro, un quadrato, di fantasisti: Erik Lamela è passato dalla Roma al Tottenham, Gareth Bale dal Tottenham al Real Madrid, Mesut Özil dal Real Madrid all’Arsenal e Gervinho dall’Arsenal alla Roma. A giudicare dalle cifre, la squadra che ci ha perso è la Roma: Bale è stato pagato 100 milioni, la cifra più alta nella storia del calcio. Özil è andato per 50 milioni all’Arsenal, che non aveva mai speso la metà di quei soldi per l’acquisto di un giocatore. Lamela, pagato fra i 30 e i 35 milioni, è diventato sia l’acquisto più costoso della storia del Tottenham, che la cessione più redditizia di quella della Roma. Il povero Gervinho, invece, è stato pagato 8 milioni: meno di un dodicesimo di Bale. Invece è il giocatore del momento. In Coppa ha segnato, di rapina, il gol con il quale la Roma ha battuto la Juventus. E guardate che “la Roma elimina la Juve grazie a un gol di rapina di Gervinho” sembra una di quelle locuzioni inventate a scuola per spiegare la figura retorica del paradosso.

1. Da dove viene
Gervais Lombe Yao Kouassi è nato in Costa d’Avorio nel 1987. Dopo un’infanzia di partite giocate senza scarpe, perché troppo costose, viene preso all’accademia calcistica dell’ASEC di Abidjan, ed è lì che Gervais diventa “Gervinho”, alla maniera dei brasiliani. L’ASEC è la squadra di Jean-Marc Guillou, il primo ad aver lanciato un allenatore francese che segnerà la carriera di Gervinho: non è Rudi Garcia, è Arsène Wenger. Wenger è stato il vice di Guillou al Cannes negli anni 80, e i due sono sempre in contatto. Fra l’ASEC, il Beveren (squadra belga, ora fallita, gestita poi dallo stesso Guillou) e l’Arsenal si instaura un giro di calciatori, passaporti e denaro per il quale la Fifa indagherà, per poi assolvere, anche Wenger. Intanto fra l’ASEC e il Beveren passa mezza nazionale ivoriana: da Yaya Toure, al portiere Barry, ai due terzini Eboué e Boka, ai centrocampisti Romaric e Yapi Yapo. E lo stesso Gervinho.

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È al Beveren che vediamo per l’ultima volta Gervinho senza quelle treccine che sembrano fatte apposta per sottolineare la sua calvizie. A Roma ha cominciato a usare una fascia più grande, quindi niente più “curtain style haircut”, niente più Er Tendina.

Al Beveren gioca da attaccante puro, in una squadra in cui diciassette ventiduesimi sono ivoriani. È lì che si parla per la prima volta di un suo possibile passaggio all’Arsenal di Wenger, ma finisce in Francia, al Le Mans, la squadra nella quale è esploso il più grande calciatore della storia ivoriana: Didier Drogba. L’allenatore di quel Le Mans, una piccola squadra che gioca bene, è Rudi Garcia. A fine anno arriveranno noni, il miglior risultato della storia del club, e Garcia viene ingaggiato dal Lille. Gervinho viene nuovamente accostato all’Arsenal, e lui dichiara: «so che Wenger mi segue da quando avevo 17 anni; lui è un grande allenatore, e quando un grande allenatore dimostra di apprezzarti, questo ti dà la fiducia necessaria a giocare ai migliori livelli» – qui c’è molto del carattere di Gervinho – «io farei di tutto per andare all’Arsenal, è il club che ho sempre sognato, e sarebbe il giorno più bello della mia vita». Solo che anche questa volta il giorno più bello della sua vita non arriva, anche questa volta il trasferimento rimane solo ipotetico (si parlò anche di un interesse del Milan), e, nel 2009, Gervinho raggiunge Garcia al Lille.

Nel Lille, Gervinho si consacra definitivamente, così come il gioco – veloce e offensivo – di Garcia. Inizialmente gioca con un centravanti classico, lo stesso De Melo che aveva avuto al Le Mans, poi sempre più spesso schiera un 433 con tre seconde punte. È in questa configurazione tattica che Gervinho dà il meglio di sé, partendo largo ma sempre vicino alla porta. Nelle due stagioni al Lille segna anche diversi gol, 18 in entrambe fra campionato e coppe. Ma non è solo questo: Garcia dà fiducia a Gervinho. Lo celebra quando gioca bene, ma soprattutto lo difende quando gioca male o fa qualche sciocchezza, come quando – nell’aprile del 2011 – si fa espellere per uno spintone a un difensore, lasciando al Monaco la vittoria e al Marsiglia di avvicinarsi a un punto dal Lille. E, forse ancora più importante, lo fa giocare sempre. Non è che a Gervinho manchi il carattere o il coraggio – in campo è grintoso, se perde un pallone cerca di andarlo a riprendere – ma ha bisogno di fiducia ed entusiasmo per essere libero di provare a giocare come sa.

A fine 2011, finalmente, arriva “il giorno più bello della mia vita”: Gervinho va all’Arsenal, dove incontra Wenger, l’allenatore che lo seguiva da quasi 10 anni, il suo mentore da lontano. Solo che, come spesso accade, ciò che uno sogna per una vita non si rivela all’altezza del sogno. Alla prima partita con l’Arsenal, Gervinho prende un cartellino rosso per una manata a Joey Barton.

Di coraggio ne ha anche troppo: tirare uno schiaffo a Joey Barton è come sfidare Maradona a una gara di palleggi.

All’inizio è titolare, ma segna poco ed è decisivo solamente in un paio di partite. A metà stagione è in panchina, e subentra quando c’è bisogno di attaccare, spesso partendo da più lontano per la necessità di allargare il gioco. Gervinho ne soffre, non è la classica ala che va sul fondo e crossa. La faccenda si acuisce l’anno successivo, con l’arrivo di un vero centravanti come Giroud: Wenger concede sempre meno fiducia a Gervinho, e quando entra in campo gli chiede di fare ciò che fa Walcott, un giocatore con pochi fronzoli: velocissimo, ma anche molto freddo e bravissimo nell’uno contro uno con il portiere. Ma Gervinho non è Walcott, e la cosa non funziona. Altre volte viene impiegato come vice Giroud, ma neanche quello è il suo ruolo, e le cose vanno sempre peggio: i tifosi dell’Arsenal sono già da tempo insofferenti per le molte occasioni sbagliate, e Gervinho diventa la personificazione del giocatore in grado si sbagliare qualunque gol.

Il gol sbagliato per cui Gervinho è stato paragonato a Bobby Zamora, celebre sbagliatore di gol che si meritò anche lo stupendo coro: “When you’re sat in row Z, and the ball hits your head, that’s Zamora” (sul motivo di That’s Amore)

2. Il diritto di sbagliare
Ora, se avete capito come funziona Gervinho, sarà chiaro che la sfiducia segue alla sfiducia e ne genera altra, in un circolo vizioso che non si può spezzare se non ripartendo da zero: questo lo sa Gervinho, lo sa Wenger, e lo sa Rudi Garcia che se lo porta alla Roma. Quando ne parlano, tutti sottolineano questo aspetto, la peculiarità di Gervinho, la necessità di sentire la fiducia attorno per giocare: con Wenger non ha funzionato. La fiducia è il tema che torna sempre, lui dice: «mi avrebbe aiutato se Wenger avesse dimostrato più fiducia in me», e ancora: «lo rispetto come allenatore, e sono contento di aver giocato con lui. Ma con Garcia potrò giocare di più e avere più fiducia». Garcia non smette di dire che bisogna dargli fiducia. Anche Wenger dice di avere deciso di cedere Gervinho «perché era sfiduciato. Perché è un giocatore molto creativo, un dribblatore istintivo, e se giochi così devi avere un sacco di fiducia in te stesso per essere efficiente. Negli ultimi sei mesi per lui era molto difficile esprimere il proprio talento, la sua fiducia in sé stesso. Così mi sono chiesto: riesco a tirarlo su io o ha bisogno di una nuova sfida per ritrovare fiducia?».

Questa è la verità più elementare su Gervinho: per rendere ha bisogno di fiducia. Non per un vezzo, non per una debolezza di carattere. Ma perché è proprio il modo di giocare di Gervinho a richiedere riconoscimento, sicurezza, anche tolleranza. Il mestiere di Gervinho è creare occasioni dove non ce ne sono, creare superiorità numerica quando i difensori sono di più, creare – non rifinire o concludere qualcosa che già c’è – a scapito di quella che sembra la realtà di un momento di gioco. E quando tenti di battere la realtà, tante volte è la realtà che vince. Perciò Gervinho sbaglia, tenta, non riesce, qualche volta s’intestardisce. Ma non è un suo difetto, è più propriamente un danno collaterale. Gervinho deve sapere di avere la possibilità di sbagliare, deve sentirsi in diritto di sbagliare. Altrimenti diventa un giocatore inutile, uno come tanti altri (un giocatore simile, in Italia, è Alessio Cerci).

Creare occasioni dove non ci sono. “Gervinho non ha sostegno”. Un pallone innocuo sulla riga del fallo laterale, con sei avversari e nessun compagno in mezzo all’area.

3. Roma
Così Gervinho decide di tornare a fare quello che aveva fatto prima che arrivasse il giorno più bello della sua vita, e torna – per la terza volta – da Rudi Garcia. Roma è una piazza perfetta per ricominciare, ma al tempo stesso molto pericolosa. Perfetta perché è tutta la Roma a dover ricominciare, perché le aspettative sulla squadra – mai come quest’anno – sono basse. Perché se le cose cominciano ad andare bene, l’entusiasmo sarà enorme. E, chiaramente, perché c’è Garcia. Ma un posto, “una piazza”, pericolosa. Se a inizio anno le agenzie di bookmakers avessero accettato scommesse su quale era il primo giocatore che sarebbe stato fischiato dalla propria curva, non c’è alcun dubbio che Gervinho avrebbe avuto la quota più bassa. Un giocatore poco concreto (in un momento in cui i tifosi romanisti erano stufi di due anni di bel gioco inconcludente e bramavano cinismo), arrivato a Roma dopo un fallimento e con la reputazione di “cocco dell’allenatore”. Tanto più che lo scetticismo riservato a tutta la squadra ha in Gervinho il principale obiettivo: il paradosso di una città che di solito esalta qualunque giocatore dalle capacità questionabili, che ora ha fatto un bagno di realismo e non crede più a nessuno.

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La faccia di Balzaretti e Julio Sergio che dice «povero piccolo, non sai cosa ti aspetta». Del resto Gervinho ha sempre giocato in squadre con la maglia gialla o con la maglia rossa. Era destino che finisse alla Roma.

Per questo, perché le cose vadano bene, c’è bisogno che si mettano subito nel verso giusto. Ed è così che succede. Nelle prime partite Gervinho è devastante: fa anche gol e assist, ma soprattutto sembra imprendibile, tanto che per fermarlo devono strappargli la maglietta (come ha fatto Perez, del Bologna). Bastano poche giornate e tutti cominciano a studiare come limitarlo, non è il giocatore più decisivo, ma è certamente il giocatore che più costringe gli avversari a limitare il proprio gioco. Complice una maggiore attenzione degli avversari, complice un suo infortunio, complice un infortunio di Totti e il ritorno di Destro, Gervinho è un po’ calato. Ma non è preoccupante, perché oramai le cose hanno preso il verso giusto: l’emblema di questo è stata la partita con il Catania. Gervinho ha sbagliato due gol facili, uno facilissimo, e uno clamoroso. Poi, mentre tutta la squadra cercava di farlo segnare, ha segnato per sbaglio. Ljajic gli ha messo un pallone perfetto in mezzo, e lui ha svirgolato il pallone, che gli è finito sullo stinco, e ha preso un rimbalzo strano che ha superato il portiere. Lui non ha neanche esultato, ma tutta la squadra è andata ad abbracciarlo (è bello vedere la faccia di Totti, e soprattutto di Garcia, che dicono «ce l’abbiamo fatta»), mentre il pubblico esultava come se quello non fosse il quarto gol di una partita già vinta. Allora Gervinho che, evidentemente, si vergognava un po’ per il gol che aveva appena fatto e stava già tornando a centrocampo, si è voltato verso la Curva Sud e ha fatto un inchino. È per questo che, oggi, e contro molte possibili previsioni, Roma è l’ambiente perfetto per Gervinho. Quel genio pasticcione è stato adottato. Il fatto che sbagli tanti gol è diventato quasi una nota di colore. Perché se la Roma vince, siamo tutti felici. Ma se segna Gervinho, allora sì che la festa è completa.

«Vi adoro anch’io»

Garcia ora racconta che per lui «all’inizio è stato difficile, nessuno credeva fosse un buon acquisto». D’altra parte c’è una certezza: Gervinho gioca sempre. Garcia non lo toglie mai. Se c’è uno sicuro del posto non è Ljajic, né Florenzi. Non è Destro, e neppure Totti. È Gervinho. Ed è forse la nemesi perfetta che, in un suo momento di forma non eccezionale (che passerà, con l’arrivo della primavera, come è naturale per giocatori simili), in una partita in cui aveva fatto meno del solito, riesca a segnare con un tocco da centravanti contro la Juventus. Un gol che aveva provato a fare, esattamente identico, contro il Livorno, per poi svirgolare il pallone e regalare un assist involontario a Destro. Ma non è diventato un giocatore decisivo, lo è sempre stato.

4. Perché Gervinho è il giocatore più utile della Serie A
Gervinho è un giocatore molto particolare, Garcia non esagera quando lo definisce un giocatore “unico”, il che è assieme un pregio e un difetto. Anche il ruolo di Gervinho è molto difficile da stabilire, se vi capita di vederlo giocare, vi stupirete di quante volte finisca in posizione di centravanti. La migliore posizione di Gervinho è quella in cui può sempre ricevere il pallone. Questo non vuol dire che lo debba ricevere sempre, anzi, Gervinho è tutt’altro che un regista, e tocca molti meno palloni di altri giocatori che hanno caratteristiche simili. Ma è importante la possibilità di ricevere il pallone, perché questo costringe le difese avversarie ad adottare contromisure e, inevitabilmente, lasciare spazi. La sua caratteristica più immediata è certamente la rapidità. Ma questo è ciò che dà adito all’equivoco più diffuso su Gervinho, e cioè che sia un centometrista. Non è così. Certo, è un giocatore molto veloce, e lo può fare se c’è la possibilità di un contropiede.

Se vi ha impressionato quella contro l’inter, guardate questa

Ma Gervinho non è Bale, o Walcott, o Cristiano Ronaldo, specie con la palla. Anzi, per la velocità che ha, Gervinho è un giocatore che gioca con il pallone molto vicino ai piedi. Quando si allunga il pallone spesso sbaglia: spesso non sbaglia i tiri, proprio non arriva a tirare perché si allunga il pallone con i tempi sbagliati e il portiere (o l’ultimo difensore) lo anticipa. Al contrario di quello che fanno molti esterni classici, lanciare il pallone in avanti e rincorrerlo, Gervinho tenta sempre di avere il pallone nel raggio d’azione del suo calcio, vuole sempre avere la possibilità di cambiare direzione, di andare da un’altra parte. Se fosse un’automobile si direbbe che ha un’altissima “velocità massima”, ma che la sua qualità migliore è “l’accelerazione”. È velocissimo, ma ancora di più, è agile: per questo è così forte nello stretto, ama i triangoli (difficile trovare un giocatore così bravo nel dribbling e al tempo stesso così altruista), e accentrarsi.

Il dribbling di Gervinho, poi, è molto particolare. Non fa la classica finta di corpo, è raro che faccia un doppio passo. Ma se c’è un giocatore che “punta” l’uomo, quello è Gervinho. Lui avanza caracollando e saltellando verso il giocatore avversario, non deve ingannare il difensore suggerendogli il lato sbagliato, perché è abbastanza rapido da minacciarli entrambi. La finta di Gervinho non è “ti faccio credere che vado di qua, e poi vado di là”, la finta di Gervinho è “sto per partire, temimi”.

«Sto per partite, sto per partire, sto per partire. Ciao». È anche difficile scegliere un video illustrativo perché questo non è il tocco speciale di Gervinho: lui lo fa dieci volte a partita.

Probabilmente in Serie A c’è solo un giocatore così bravo, forse anche più bravo, nel dribbling da fermo: Juan Cuadrado. Ma Gervinho, rispetto a Cuadrado, è molto più bravo nel gioco senza palla, soprattutto nel trovare il tempo dell’inserimento alle spalle del difensore, caratteristica fondamentale per uno che gioca come lui (ogni tanto penso al livello di perfezione che avrebbero raggiunto con il Totti di qualche anno fa). È per queste ragioni che se viene schierato da ala pura, come ha fatto Wenger all’Arsenal, o anche come ha provato Garcia recentemente in un 4231 con Totti dietro a Destro, non dà il suo meglio. Naturalmente questo crea inevitabili problemi di collocazione, perché un allenatore si ritrova un giocatore che deve giocare vicino alla porta, ma che non ha la freddezza di un attaccante puro. Perciò l’allenatore deve decidere di sacrificare uno di quei due o tre posti vicino alla porta avversaria per un giocatore che non garantisce gol.

Ne vale la pena? La risposta di chi scrive è, evidentemente, sì. Non è soltanto il fatto che l’esistenza di Gervinho, anche quando apparentemente inefficace, libera spazi per gli altri attaccanti. Ma che questa costringe il gioco avversario e ne limita le soluzioni. Per questo Montella – che allena una squadra con un gioco ben definito, e perciò restia ad adattarsi agli avversari – ha detto, molto causticamente, «o lo leghi, oppure c’è poco da fare». Naturalmente non è vero, anche contro Gervinho ci sono delle contromisure. Bisogna “fare densità”, e cioè tenere i difensori vicini alla propria linea di porta e, ancora più importante, i centrocampisti vicini ai difensori (l’ha fatto la Juventus in campionato). In questo modo Gervinho non può ricevere palla nelle sue posizioni preferite, e lo si costringe ad andare a prendere il pallone largo o – più spesso – vicino al centrocampo. Allo stesso modo questo dà la possibilità di raddoppiare, anche triplicare, la marcatura quando gli arriva il pallone in una posizione più pericolosa. Ma, certo, la necessità di prendere tutte queste contromisure per un giocatore solo dà la misura della sua grandezza. Se al posto di Gervinho ci fosse stato Destro, la Juventus avrebbe certamente giocato diversamente e in modo più simile a come gioca nel resto della stagione. E stiamo parlando della squadra italiana nettamente più forte delle altre, non di una squadra che è abituata a difendersi dalle individualità avversarie.

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La
statistica più clamorosa di Juve-Roma 3-0 è stato il 100% di passaggi riusciti di Gervinho, come a dire: 1) ha preso palloni lontano dalla porta; 2) ne ha presi davvero pochi; 3) altro che diritto di sbagliare

Ovviamente difendersi in questo modo riduce enormemente le soluzioni offensive, e molto semplicemente non si può fare se si ha la necessità di segnare. Inoltre è una notevole spada di Damocle, non soltanto tattica, ma anche psicologica, l’idea di “non poter andare in svantaggio, perché altrimenti loro hanno Gervinho”. Ed è questo che rende Gervinho indispensabile al gioco di Garcia, oltre al fatto che – molto semplicemente – l’esistenza di Gervinho in campo rende la squadra avversaria più vulnerabile. Nelle prime 12 partite (quindi prima della sosta di novembre), complice il suo infortunio, la Roma ha giocato più o meno gli stessi minuti con Gervinho in campo (548 min) e senza Gervinho (534 min). Con Gervinho ha segnato 19 gol. Senza ne ha segnati 7. Nell’ultimo mese e mezzo, come detto, Gervinho – così come la Roma – è parzialmente calato, e la statistica si è un po’ riequilibrata: 1244 minuti con Gervinho, per 34 gol: cioè un gol ogni 36 minuti. 568 minuti senza, per 8 gol: cioè un gol ogni 71 minuti. Questo vuol dire che, anche quando non partecipa direttamente all’azione, con Gervinho in campo la Roma ha precisamente il doppio di possibilità di fare gol (senza contare che con Gervinho 90 minuti in campo la Roma ha giocato con Juve, Inter, Milan e Fiorentina, e senza Gervinho ha giocato contro Chievo, Udinese, Torino, Sassuolo). Per questo gli si possono perdonare le occasioni sciupate, perché come ha detto Garcia, “nel calcio, senza Gervinho, quelle occasioni non esistono”.

Qualche dubbio di un garantista su Cancellieri-Ligresti

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Sulla questione Cancellieri-Ligresti si scontrano due visioni: quella secondo la quale la giustizia viene prima dell’equità e quella secondo la quale l’equità viene prima della giustizia. I primi dicono che, per Cancellieri, fare la cosa giusta in un caso – di suoi amici, o di suoi nemici – è meglio che non farla in alcun caso. I secondi riconoscono un valore maggiore all’equità: se qualcuno non può avere il trattamento giusto, non lo dovrebbe avere nessuno.

È una discussione vista tante volte, come ad esempio nel caso delle pensioni di reversibilità per i parlamentari gay (ce l’hanno i parlamentari, non quelli gay: è giusto darla almeno ai parlamentari gay se i cittadini non ce l’hanno?), e sul principio generale non mi sembra ci siano dubbî: l’equità è un valore importante, ma viene dopo la giustizia. E un po’ di giustizia è meglio che nessuna giustizia.

[Sto naturalmente dando per scontato che si ritengano ingiuste le condizioni di carcerazione di Ligresti (e di molti altri detenuti), e che – come sembra, e non abbiamo ragione di dubitare – il Ministro non abbia fatto alcuna pressione che non gli compete: non fosse così, la discussione sarebbe completamente un’altra e credo che tutti sarebbero concordi]

Fra l’altro, il primo punto di vista è difeso da tutte le persone per bene che conosco e leggo; il secondo punto di vista, a quello che ho avuto modo di vedere, non ha dei grandi avvocati: gli argomenti vanno dall’inarticolato allo squisitamente fascista. Leggere cose come queste, con tutto l’armamentario dei “curiosamente” e dei più elementari non sequitur inquisitorî, fa schifo.

Eppure, sul caso specifico, a me rimangono delle perplessità che mi fa piacere confrontare con le opinioni di chi stimo e la pensa diversamente da me.

Una cosa molto importante nel valutare le azioni che si fanno sono le conseguenze che quelle stesse azioni hanno nel mondo: cosa insegnano, e quali limiti di accettabilità costruiscono per gli altri. Così forse sembrerà una cosa vaga, ma è invece il modo con il quale viene costruita una società. È il motivo per il quale ora buttiamo le carte per terra molto meno rispetto a vent’anni fa, e se lo facciamo abbiamo la percezione che sia una cosa sbagliata (magari lo facciamo ancora, ma se c’è qualcuno davanti, aspettiamo che abbia girato l’angolo).

Cosa insegna la telefonata di Ligresti a tutte le persone coinvolte? Ai funzionarî incaricati, ai capi della polizia, alle persone che lo vengono a sapere, agli amici e ai parenti di queste persone a cui questa storia è stata raccontata, agli amici degli amici, etc. Insegna che di fronte a un difetto del sistema, di fronte a un’ingiustizia di cui si è vittima, si cerca la via di fuga, si cerca di aggirare il sistema perché il sistema non funziona. E, intendiamoci, è vero: il sistema non funziona. Ma continuando a trovare il modo per aggirarlo, ne contribuiamo al rinforzamento.

E questo è un principio che – mi dispiace dirlo – in Italia è difficilissimo da comunicare. In tantissime circostanze mi è capitato di vedere persone, anche persone da cui non me lo sarei aspettato, anche persone fra quelle che più stimo, che considerano del tutto normale alzare il telefono per avere una via preferenziale: ripeto, non per avere qualcosa che non gli spetta, ma per ottenere ciò che i giusti canali dovrebbero garantirgli e che non riesce a ottenere attraverso i giusti canali. È una delle tante riproposizioni del fine che giustifica i mezzi.

L’Italia funziona così: per informazioni particolari. Spesso la raccomandazione non è nel truccare un concorso, ma nell’accesso al concorso stesso. C’è un bando, potrebbero accedere tutti, ma lo sanno solo gli amici di quelli che l’hanno esteso (e chi lo fa pensa: in fondo che c’è di male a segnalare a un amico che c’è un posto di lavoro?). E, in una piccola misura, lo facciamo tutti: è come è “costruito” il Paese a costringerci per andare avanti.

Nel mondo anglosassone questo è molto diverso. Non è che queste cose non succedano, ma quando qualcuno le fa, se ne vergogna (come il buttare la carta per terra), non lo racconta agli amici. E questo contribuisce a una migliore educazione delle persone che vengono dopo. Ovviamente non è una differenza genetica, è semplicemente che all’estero sono più abituati a un sistema che funziona, e quindi sono meno abituati a doverlo combattere con mezzi improprî. Ma il problema è che, nel comportarsi così, si instaura un circolo vizioso che ci fa diventare la causa dell’effetto di cui siamo vittime: essendo “costretti” (ma uno costretto non lo è mai) dal sistema a usare mezzî illegittimi, siamo la causa del rafforzamento di quel sistema.

Nel caso Cancellieri, il problema non è ovviamente nel fatto che il Ministro si sia attivato una volta che è venuta a conoscenza della situazione (non è a questa obiezione che si deve rispondere). Il problema sta nel modo in cui è venuta a conoscenza della situazione. Non è accettabile che un Ministro venga a sapere di un problema della giustizia perché chi ne è vittima le fa una telefonata, non è la giusta procedura (le procedure sono LA democrazia, in democrazia). È la stessa ragione per la quale una notizia avuta attraverso intercettazioni ottenute illegittimamente si brucia, anche se le informazioni ottenute sarebbe rilevanti per un’azione penale.

Vi racconto una cosa: durante le elezioni, un’amica che ha vissuto tanti anni all’estero, aveva bisogno di un documento per una candidatura. Per farlo, da residente all’estero, doveva rivolgersi alla sua ambasciata che poi si sarebbe rivolta al comune di residenza (etc, etc, etc). Come immaginate, come sempre con la burocrazia, una cosa molto semplice richiedeva infiniti passaggi, e infinito tempo.

Dopo essere stata per giorni e giorni a rincorrere tutti i cavilli, il funzionario, che aveva preso confidenza in tutti quegli scambi di mail e ore al telefono, si era lasciato a una domanda: «ma lei si candida con Grillo, vero?». Forse non avete colto, perciò vi traduco: non posso credere che una persona che non è sprovveduta (leggi: che non ha agganci; leggi: probabilmente grillino) si sottoponga a tutto questo ambaradan anziché fare una telefonata all’ambasciatore.

E lo stupore del, gentilissimo, funzionario era evidentemente empirico: anche dall’esperienza, non concepiva che qualcuno non volesse usare i proprî agganci, anche se li aveva. Perciò ne era evidentemente sprovvisto. E ribadisco: stiamo parlando di qualcosa che alla mia amica spettava, una cosa che in un Paese più civile avrebbe ottenuto in cinque minuti senza bisogno di alcun canale particolare.

Ed è, temo, questa la grande presa che il messaggio di Beppe Grillo ha su tante persone escluse da ogni circolo. Penso anche io che molti siano soltanto rancorosi per non essere riusciti a entrarci, in qualche circolo, e se ne facessero parte, ne approfitterebbero. Lo si legge dal riflesso condizionato che hanno nel pensare sempre male delle altre persone. Ma questo cosa importa? È anche per questo che bisogna essere diversi.

Ritratto del romanista incredulo

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In questi giorni l’AS Roma è prima in classifica: ha giocato 10 partite e ne ha vinte 10. È un record.

Per me, che ho sempre tifato contro la Roma, questo scenario dovrebbe essere, di per sé, una tortura. E invece non succede. E il motivo per cui non succede non è così immediato, ma ha a che fare con i due motivi per i quali io tifo contro la Roma, che sono uno serio e uno scherzoso.

Quello serio è che – essendo cresciuto a Roma – la larga parte dei miei amici è romanista, e il sale del calcio – per chi lo sa, per chi non dice quella sciocchezza che non si deve tifare contro – è proprio tifare contro le squadre dei proprî amici: io tifo contro l’Inter per prendere in giro Alex, Davide o Saverio (ma che m’importa di Mazzarri, Milito o Moratti?) aspettandomi lo stesso trattamento, quando accade l’inverso (piuttosto spesso, considerato che tifo la Fiorentina).

Quello scherzoso è che i romanisti sono i tifosi più partigiani e complottisti (in un certo senso, sono i più tifosi) che ci sono. Naturalmente la mancanza d’obiettività è piuttosto diffusa (eufemismo) nel calcio, ma quando c’è di mezzo la Roma, beh: ricordo partite perse dalla Roma nonostante numerosi episodî arbitrali favorevoli in cui i tifosi della Roma si lamentavano dell’arbitraggio; ricordo tonnellate di fischi a un giocatore della Roma che aveva appena fatto gol (!) e che sarebbe stato il principale artefice di una rimonta clamorosa; ricordo accuse di complotto del Palazzo «eh, ti pareva, ci odiano» per ogni rigore dato contro, anche il più lampante; ricordo prese di posizione come «Marco Motta è il nuovo Maldini»; ricordo argomenti a favore del «presi uno per uno i giocatori della Roma sono superiori al Barcellona».

E quest’ultima considerazione mostra un altro tratto del tifoso in generale, ma del romanista più di tutti: avere verso la propria squadra, e in particolare verso i nuovi acquisti, lo stesso atteggiamento dell’italiano che si è appena fidanzato con una splendida ragazza sconosciuta. C’è quel fondo di «ma davvero è toccato a me, posso essere così fortunato?» che alimenta la luna di miele del «non esiste una ragazza più bella di lei». Al tempo stesso, però, conoscendola poco c’è sempre quel latente e mai ammesso dubbio: «ma non è che mi tradirà?». E naturalmente, quando inevitabilmente succede, quando si scopre che Fabio Junior è uno scarsone, come Bartelt o Tetradze, il disprezzo, l’odio, il rinnegamento, la frustrazione: «ma come hai potuto farmi questo?»

Eppure. Eppure tutto questo non sta succedendo. Incredibilmente, in questi giorni, Roma è così serena, lieta, vivibile. Il tifoso della Roma è lì, che dentro ovviamente ribolle, ma è completamente diverso, quasi cambiato. Non dice spavalderie senza senso, non si lamenta degli arbitri, non se la prende con i proprî giocatori (guardate che l’equazione Gervinho+TifosiDellaRoma=Applausi è qualcosa che mette in dubbio i più elementari assiomi del mondo nel quale viviamo).

Direte voi: è perché la Roma sta vincendo, quando si vince si è tutti più buoni. Ma non è così. In questi anni la Roma è stata spesso forte, ancor più volte entusiasmante, e l’atteggiamento del romanista medio era quasi peggiore che nei momenti di sconforto, dato che quando sei davanti perdere uno o due punti può essere determinante: ancor più rancore per gli errori, ancor più complottismo su ciascun episodio arbitrale, ancor più ostinazione a rivendicare la forza della propria squadra, e l’ingiustizia del non essere primi in qualunque classifica immaginata dall’uomo. Lo Scudetto del 2001 fu l’apogeo di tutto ciò.

E invece tutto questo non succede. E sapete perché?

Perché il romanista, oggi, pensa di non meritarla questa posizione in classifica. Ma, badate bene, non è che pensa di non meritarla perché la Roma è così in alto giocando male o per episodî favorevoli: tutt’altro, la Roma sta giocando benissimo, con un’intensità completamente ignota al calcio italiano. I tanti che dicono che “sicuramente crollerà” non l’hanno vista giocare.

Il romanista pensa di non meritare questo primo posto perché l’unico vero criterio con il quale un tifoso valuta cosa merita o non merita sono le proprie aspettative. Ogni volta che la propria squadra compra un grande giocatore, o anche una possibile sorpresa, qualunque tifoso comincia a pensare che il mondo “gli deve qualcosa”. Che la vittoria sia a un passo e solo forze occulte possano toglierla: l’anno scorso ci siamo andati vicini, ora abbiamo anche quest’altro, non può andare diversamente.

Ma quest’anno, dopo due anni di sofferenze così diverse e così simili, nessun tifoso si azzardava a sperare niente. Non è che non si azzardava a sperare niente di simile. Non si azzardava a sperare niente. E basta. Lo scetticismo, quasi filosofico, aveva preso possesso della testa del tifoso romanista, una sorta di stoica – ma comprensibile – rassegnazione al male del mondo.

Poi vinci dieci partite e ti ritrovi lì, con la testa fra le mani, a domandarti: ma sta davvero succedendo?

E te lo domandi a bassa voce, per paura che gli Dei del calcio possano sentire e domandarsi: «ma davvero abbiamo permesso questo?», per poi ristabilire l’ordine naturale delle cose: quel posto lì davanti spetta a una strisciata, mica alla Roma. Così questo pudore, questo imbarazzo, che è del tutto trasversale a ogni romanista si trasmette in ogni atteggiamento: il lunedì mattina in ufficio, i commenti per strada, al giornalaio. In questi giorni il romanista abituato a chiedere al giornalaio «mi dà il Corriere», dando per scontato il “dello Sport”, fa anche questo sforzo di compostezza, chiede «mi dà il Corriere dello Sport».

Perché se dici il “Corriere”, metti che il giornalaio non capisce e ti chiede «dello Sport?»: lì sei già fregato. Già lì ti troverai a rispondere «sì», senza poter far nulla per evitare il «certo», o anche solo l’«ah», complice del giornalaio. E un “ah” complice è l’ultima cosa che il romanista vuole, di questi tempi. La forza della squadra, la striscia di vittorie, la Roma che gioca bene, il record, tanto-meno-dio-ce-ne-scampi-lo-scu…-quella-cosa-lì, non va nominata. Sta andando tutto troppo bene, troppo inaspettatamente bene, per azzardarsi a proferire una qualunque spavalderia che – ogni tifoso lo sa bene – potrebbe causare, in un solo istante, la disfatta.

Io c’ho provato eh! Ho provato a tirare fuori l’argomento: «allora, siete primi in classifica!»; un onesto «certo che è proprio forte Strootman» o anche solo un innocente «parliamo di calcio» incontrano inevitabilmente i «noooooo, di quella cosa lì non parliamo» dalle stesse persone che appena pochi mesi fa avrebbero tirato fuori un «Ahà, abbiamo battuto il Lecce 2-1 al 87° in contropiede». Ogni tifoso sente la responsabilità del dover tenere-i-piedi-per-terra: e se lo possono fare Florenzi e Ljajic, che hanno 22 anni, anch’io che ne ho 30 – o 40, o 50 – devo dare il mio contributo.

E io, che sono dall’altra parte, mi sento quasi orfano di quelle conversazioni. Ogni volta mi viene quasi da pensare: «eddài, e prendimi un po’ in giro, stai dodici punti sopra la Fiorentina, è tuo diritto». Ma niente, ogni mio amico romanista sa che non se lo può permettere quello sgarro, non può:  perché c’è qualcosa di molto più importante in palio. Quella cosa lì, insomma. E mentre si ritrova a pensare a «quella cosa lì», si rende conto di averla effettivamente pensata Quella-Cosa-Lì, e allora scaccia il pensiero più veloce che può domandandosi «sarà sufficiente?». Sarà sufficiente?

Estendere una legge che non dovrebbe esserci?

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E insomma, ieri è stata finalmente approvata – alla Camera, chissà poi cosa succederà – la legge sull’omofobia di cui si parla da tanto tempo. Solo che, invece di festeggiare, mi son ritrovato a rimuginare sui soliti dubbî che, una volta per tutte, metto per iscritto.

Il problema che ho con questa legge non è, naturalmente, riguardo l’ultimo emendamento che esclude “le organizzazioni politiche e religiose” dall’alveo di applicazione della legge; per quanto sia una distinzione vergognosa, un piccolo passo in avanti è sempre un passo in avanti. Meglio una legge timida, che nessuna legge. Di più: questo è un tassello di futuro. È anche più facile rafforzare, di un po’, una legge che c’è, piuttosto che far digerire al Parlamento una legge nuova e molto dura.

No, il problema riguarda il fatto – neanche tanto originale – che la Legge Mancino, di cui questa legge estende le aggravanti, è una legge che non dovrebbe esserci. È una legge certamente animata da buoni intenti, ma che persegue questi intenti nella maniera che uno Stato non dovrebbe mai permettersi: decidendo quali sono le opinioni ammesse e quali sono le opinioni non ammesse. Andando a intaccare la libertà d’opinione delle persone, facendone un reato. Sì, anche la libertà d’opinione di un fascista. Sì, conta anche quella. E no, non trovo giusto punire qualcuno maggiormente perché pensa qualcosa di particolare mentre commette un reato. E sì, penso che qualcuno che picchia un’altra persona perché è della Lazio dovrebbe essere punito quanto uno che picchia un’altra persona perché nera.

Non sono molto appassionato alla questione della costituzionalità della legge Mancino – mi interessa cosa è giusto o non è giusto –, ma certo a parlare di costituzioni, non si può non pensare quanto sarebbe inconcepibile avere una legge simile negli Stati Uniti dove alcune parti di quella legge, se non l’intero impianto, sarebbero annichilite dal primo emendamento.

Come in molte cose della vita, è di Christopher Hitchens il più bel discorso sul perché anche la più infame e sola delle opinioni deve avere la possibilità di essere espressa; su come il concetto di “incitamento all’odio” sia scivoloso e gli hate crimes (quelli ci sono anche negli Stati Uniti) molto difficilmente definibili evitando d’incorrere nel reato d’opinione.

Questo senza parlare della formulazione, orribile, della legge Mancino che aggiunge alle discriminazioni “razziali, etniche, nazionali” anche quelle “religiose”, come se la religione fosse un’idea data e immutabile. Non un’opinione che qualcuno può avere o non avere, accettare, scegliere, rifiutare. Così, se io non voglio assumere nella mia azienda una persona che pensa che gli omosessuali siano un abominio, posso farlo. Se però questa convinzione è difesa con argomenti religiosi allora sto rischiando una discriminazione.

Non è un caso che questa sia la legge alla quale si appella Scientology quando le si contesta la circonvenzione e l’indottrinamento dei bambini (e degli adulti). Certo, le ragioni per l’inclusione del termine “religiose” sono abbastanza evidenti: l’antisemitismo dell’ultimo secolo. Ma anche questo è un errore: l’orrore dell’antisemitismo è il rifiuto etnico, “ci mancherebbe altro che non si possano criticare gli ebrei ortodossi per la condizione femminile, o per le ridicole pratiche bibliche a cui sottopongono i proprî figli”.

Dunque: meglio festeggiare l’estensione a un gruppo discriminato di una legge ingiusta – aumentando quindi l’ingiustizia ma limitando l’iniquità (e quindi l’ingiustizia) – oppure meglio che sia applicata il meno possibile? Non lo so, come dicevo, sono molto cambattuto.

p.s. Qualche lettore dalla buona memoria ricorderà che, tempo addietro, sulle aggravanti ideologiche avevo sostenuto l’opinione opposta. È vero. Ho cambiato idea.

Eroina o filibustiera?

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La storia di Wendy Davis dimostra, una volta di più, la nostra disposizione all’indulgenza nei confronti dei metodi con cui si conducono le battaglie che ci stanno a cuore. Lo dimostra, in realtà, l’entusiasmo che ho letto, sia in Italia che in America per quello che ha fatto questa senatrice. La storia è questa: negli Stati Uniti, in anni recenti, si è molto diffuso l’ostruzionismo parlamentare. È il motivo per cui passare una qualche legge “sensibile” in Congresso (quello federale) è diventato praticamente impossibile. In Texas si votava una legge restrittiva nei confronti dell’aborto, e questa senatrice democratica ha fatto ostruzionismo nel modo più classico per gli Stati Uniti: fare degli interventi molto lunghi. Nel suo caso, ha parlato per 10 ore, aggirando le regole molto restrittive per impedire questo tipo di operazioni: non si può andare fuori tema, non ci si può interrompere, neanche per andare a fare pipì, non si può mangiare, non ci si può sedere né appoggiare. Dopo un’ulteriore questione sull’essere passata o meno la mezzanotte, la legge è decaduta proprio per l’opera di Davis.

L’ovvietà sarebbe pensare che Davis abbia fatto una scorrettezza: ha aggirato delle regole – sensate – per impedire che una minoranza blocchi, con stratagemmi e non col consenso, il volere della maggioranza. Ha approfittato di una questione tradizionale, in America, ma bizzarra, cioè l’assenza di un limite di tempo per il suo intervento; e di una cosa molto vicina a un cavillo: la scadenza della possibilità di passare la legge dopo la mezzanotte. Insomma, ha operato completamente in quella zona grigia occupata dalle cose ingiuste, eticamente ingiuste (almeno a livello procedurale: quello che al liberalismo, da Locke, sta più a cuore), ma non ancora illegali.

Non pensate? Provate a pensare alla stesso esempio, ma all’inverso: cioè di una cosa simile fatta per ostacolare una legge che ritenete giusta. Facciamo questo esempio qui: in Italia matura finalmente una maggioranza di persone che è favore del riconoscimento delle coppie omosessuali. C’è una maggioranza popolare che è chiaramente espressa in una maggioranza parlamentare. Si vota questa legge, che ha largamente i numeri per passare: solamente che Giovanardi o Paola Binetti, pronunciandosi solennemente dalla parte di Dio, organizzino un ostruzionismo deciso. Presentano centinaia di emendamenti, così che ci si metta giorni ad affrontare il testo finale, invitano in Senato un centinaio di persone che si mettono a gridare “Uomo e Donna! Uomo e Donna!”, così che il presidente del Senato debba far sgombrare l’aula, rinviando il dibattimento ai giorni successivi. Poi, grazie a uno stratagemma, riescono a presentare un emendamento che collega le unioni gay a un’altra questione accessoria, così che alcuni parlamentari siano costretti a votarlo. Alla fine, si scopre, scrivono un altro emendamento apparentemente inoffensivo, in modo che esso si contraddica, e che così la Corte Costituzionale lo bocci. La legge così non passa.

Cosa succederebbe? Che saremmo tutti furibondi. Alcuni parlerebbero di Colpo di Stato, altri chiederebbero l’arresto di Giovanardì. Più ragionevolmente, in molti lo considererebbero un lestofante, uno capace di tutto per far prevalere la propria idea su quella della maggioranza del Paese. Anzi, a dire il vero, c’è qualcuno che non la penserebbe così: il partito di Giovanardi. Anzi: a confermare la disinvoltura con la quale ci va bene che il fine giustifichi i mezzi – quando questo fine è in accordo con la nostra idea – il partito di Giovanardi lo difenderebbe, dicendo le cose che abbiamo sentito tante volte: le regole sono queste, abbiamo rispettato le leggi, è tutto dentro alle normali strategie parlamentari, eccetera, eccetera.

Ecco, se c’è una cosa che rende inutili i dibattiti, i confronti di vedute, che rende impossibile qualunque progresso generato da un’onesta e attenta discussione d’idee è questa. Questo pregiudizio positivo – questa dissonanza cognitiva – che si ha nei confronti di chi si considera della propria squadra, e delle strategie che vengono adottate per raggiungere le idee che condividiamo. Quelle idee che, così, si dimostrano immutabili e, perciò, stupide.