Era giovane, triste, eroico, debole, caro agli dei

Qualche tempo fa se foste usciti con la bicicletta nei dintorni di Pavia, avreste potuto incontrare un corridore che correva talmente tanto – in bici – che sembrava un professionista. Si presentava pure a qualche corsa per amatori, che ovviamente stravinceva.

Lui era Franck Vandenbroucke un corridore assurdo, una via di mezzo fra un Paul Gascoigne e un Adriano delle due ruote, che per un certo tempo a cavallo del passaggio di millennio fu anche considerato il corridore più forte al mondo, vincendo la corsa più antica del mondo, la Liegi Bastogne Liegi.

Se mi avessero chiesto, due o tre anni fa, con quale ex corridore mi sarebbe piaciuto andare a cena – macché, passare una notte a chiacchierare – uno dei primi che avrei detto sarebbe stato proprio Vandenbroucke.

Nel 2004 disse che senza l’aiuto degli psicologi avrebbe anche lui fatto la fine di Pantani. Quasi fosse già scritto, destino inesorabile, con cinque anni di ritardo l’ha fatta. Il ciclismo è così, fatto di tante storie inspiegabili ma simili a sé stesse che quasi impari a riconoscerle.
QuandoPantani morì, Giuliano Ferrara scrisse un editoriale, a me molto caro, che si chiudeva così:

Uno pedala e risparmia, si sistema e coltiva il suo giardino, aspetta la morte in casa sua e accetta senza altra pena che quella quotidiana la strana dimensione dello stare al mondo, di abitarci senza febbre. Un altro no. Scambia la notte con il giorno, si fa contagiare dalla malinconia, non sa farsi domande e non può rispondersi, e balla e si dimena e cade out of the cradle endlessly rocking, fuori della culla che dondola in eterno. Che cosa c’è di male a riconoscere che un giovane uomo si è lasciato vincere dalla tristezza, che era forte della sua debolezza, che era caro agli dei e che quella era la sua salute, la sua salvezza, poiché non era un malato?

Reminder

Domani c’è il Mondiale delle bici e per la prima volta da anni l’Italia – tricampione in carica – non è fortissimissima ma soltanto forte. C’è un gran corridore da classiche dure che ha avuto la disgrazia di vincere un Giro D’Italia e credersi un corridore da corse a tappe, c’è un biondino che non vince mai quando deve ma ogni tanto quando gli capita e che per una volta quest’anno indossera una maglia dell’Italia decente, e infine c’è quell’altro nella foto che – dopotutto – è il campione in carica.

Insomma, non sarà quella di uno o due anni fa, ma l’Italia del ciclismo non è l’Italia del calcio che – fa venire i brividi a dirlo – è ancora campione del mondo e si fa prendere a pallonate dall’Egitto.

A volte ritornano

Dopo il previsto ritorno di Ivan Basso (che è dato favorito alla Vuelta che inizia fra pochi giorni), e l’imprevisto ritorno di Armstrong, sono tornati a correre Vinokourov (forse già alla Vuelta) e  anche Rasmussen. Cioè il primo e vincitore di una tappa, il secondo, il quinto e vincitore di due tappe, il settimo e vincitore della maglia a pois e vincitore di una tappa, del Tour de France 2005. Se si considera che al Giro della California, oltre a Basso e Armstrong, erano tornati Mancebo e Landis, sembra davvero di essere tornati a 5 anni fa.

Il Giro a Roma

Ieri è stata una tappa straordinaria, non solo per la cornice:

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Bettini da non corridore:

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Basso

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Di Luca

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C’era anche qualche tifoso con delle maglie un po’ particolari, visti i tempi:

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Ma la foto più bella non l’ho fatta io, ed è questa:

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Quando è cominciato a piovere: “pensa se cade, si rialza e vince”, ho pensato.
È successo.

C’è tutto il ciclismo, dentro.

Prendere in Giro

Tutti a dire che la tappa era pericolosa, quindi era stata neutralizzata, e dunque i corridori non dovevano fermarsi per annunciare col microfono le proprie decisioni. Potevano andare – piano – senza dirlo al pubblico.

Cioè, dovevano mentire? Dovevano fingere di fare la tappa seriamente e invece andare a 30 kmh? Ma che discorso è? O il percorso era pericoloso, e allora hanno fatto bene, o non era pericoloso, e allora hanno fatto male.

Rubé

Oggi c’è la Parigi-Rubaix (di cui sempre la magistrale spiegazione di Marco B), unica corsa – forse – che vale sempre la pena vedere in televisione. In qualunque altro tracciato, anche un Alpe D’Huez o una Milano Sanremo, una salitona, una corsa ondulata può sempre succedere qualcosa perché alla fine la gara ti deluda, che diventi noiosa. La Rubé no. È una gara a eliminazione, dove le regole valide sugli altri tracciati non si applicano. Se uno ne ha vista anche una sola, capisce cosa intendo. Direi che il concetto che riassume meglio questa particolarità è il seguente: non esistono fughe. Neanche quando uno è in fuga, alla Parigi-Rubaix, uno è davvero in fuga. Sono gli altri che sono in ritardo, non sei tu che stai scappando.

La Rubaix viene, come al solito, una settimana dopo il Giro delle Fiandre – in quella che è chiamata la Settimana Santa delle Ardenne: fatta di tante altre corse minori (si fa per dire), a cominciare dalla Gand-Wevelgen.

Siccome mi rimproverano di non scrivere più di ciclismo, provo a discolparmi così: il Giro delle Fiandre l’ha vinto Devolder, l’anno scorso lo vinse Devolder, quindi rimando a quel bel post, che m’era così piaciuto scrivere.