Pantani e il prato di aghi sotto al cielo

Pantani a VissaniOggi sono 15 anni che è morto Pantani, e quindi mi obbligo a raccontare una cosa che mi è successo qualche settimana fa, e che mi ha colpito molto.

Per traversie che non sto a raccontare, mi sono ritrovato nel paesino greco di Vissani, in cima alle montagne dell’Epiro, al confine con l’Albania e con la totale ruralità.

Wikipedia dice che Vissani ha 424 abitanti. Ben uno di questi è italiano, la signora Alessandra, che è mezza lombarda e mezza triestina e ha sposato un greco. Conosco il figlio, che lavora con i profughi anche lui, ed è un bravo ragazzo.

All’entrata del paesino di Vissani c’è una taverna, l’unica, che non è gestita da Vissani, ma dalla signora Alessandra. Ci ha seduti accanto al caminetto e ci ha offerto della “pastasciutta” – dove altro potrei trovare in Grecia qualcuno che dice pastasciutta? Io l’ho rifiutata perché, le ho detto, sarei tornato in Italia qualche giorno dopo per Natale; a quel punto, quasi come si fosse ricordata in quel momento che fossi italiano anche io, mi ha detto «vieni».

E mi ha portato in questo angolo della taverna, in cui sopra alle mensole che ospitano gli Amaretti di Saronno e i Campari c’è una cornice con una foto di Pantani. «Me l’hanno portata i suoi genitori, un anno dopo, perché erano qui quando è morto». Io sono sobbalzato. «Come erano qui?». «Sissì, Pantani è venuto qui anche lui, a caccia con i suoi genitori. Venivano con il camper da casa loro, per rilassarsi». Volevo farle altre domande, ma non sapevo che domande farle. Quando le ho chiesto che tipo era, Alessandra mi dice «non lo so, lui non parlava molto», dimostrando che in fondo lo sa, senza neanche sapere di saperlo, che tipo era.

E allora sono andato a vedere tutti gli articoli del giorno che è morto, e c’è scritto che i genitori stavano rientrando dalla Grecia dove erano in vacanza. E io, nel retro del mio cervello, ce l’avevo anche questa nozione che i genitori di Pantani fossero in Grecia quando lui era morto, ma chissà, li immaginavo da qualche parte al mare, del resto Cesenatico, gente di mare.

E invece venivano qui. Nell’Epiro. In un paesino nel nulla delle montagne della regione in cui vivo, a 45 minuti da dove abito, e a molto più tempo da qualunque altra cosa che avrei collegato a Pantani. Mi sono messo a rileggere tutti gli articoli che raccontavano di come anche lui, dopo un paio di fatti sventurati che tutti conosciamo, aveva cominciato anche lui a venire con i genitori in Grecia, e io ora so dove.

E così mi sono sentito un po’ La storia siamo noi.

Lo sport più bello del mondo

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Mi ero dimenticato di metterla anche qui.

Mi dispiace per voi che non seguite il ciclismo, magari vi siete dispiaciuti per il brutto mondiale dell’Italia calcistica, e non potete avere questa meravigliosa consolazione.

E già che ci sono, segnalo un paio di articoli sul ciclismo che ho scritto: uno proprio sulla vittoria di Nibali, e uno, al quale sono affezionato, sul centenario di Gino Bartali. Raccontare il ciclismo è sempre molto bello.

Fra la Via Emilia e l’East

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Vi ricordate quando vi ho raccontato di Paolo? Quel mio amico che è diventato mio amico quando ha fatto a piedi da Terni a Cambridge, la Francigena Contromano? Ecco, ora voglio un nuovo amico. Si chiama Tommaso, e va in bici.

Fermi lì. Ora lo so che voialtri, insensibili al ciclismo, state per cambiare canale: non fatelo!, questa non è la solita manfrina sul ciclismo sport-più romantico-del-mondo (lo è) o ciclismo-cosa-più-sottovalutata-al-mondo-dopo-le-cipolle (lo è). Questo è un post che vi consiglia di seguire, senza la bici, un ragazzo di Piacenza – che ha la testa risoluta e il cuore in equilibrio – e ha deciso di andare, con la bici, in Cina.

È partito un mese fa, dalla Pianura Padana. Ora è in Grecia, quasi in Turchia, e racconta via via i posti che trova. Anzi, a dir la verità, racconta via via la gente che trova. Quindi ora è fra i greci, che sono belli e spessi, e ci è arrivato passando per gli sloveni (non pervenuti), i croati (chiassosi e palestrati), i montenegrini (zingari e spettacolari), gli albanesi (simpaticissimi e ospitali), i macedoni (solo cani). Farà la Via della Seta, che non è una via, ma sono tantissime vie, così potrà decidere giorno per giorno quale seguire. Senza un vero tracciato, con passaggi e paesaggi che cambiano a profusione.

Il piano, che non c’è, è di metterci sei mesi. Però magari ce ne metterà di più, gli imprevisti sono previsti in un viaggio imprevedibile. E Tommaso sa bene due cose: che se piove si va, se fa freddo si va, ma se piove e fa freddo si accende il camino (qualcuno riconoscerà la cit. di un importante ciclista contemporaneo) e si vede la città in cui si è arrivati; e che se non sai dove andare, ogni strada ti ci porterà (qualcuno riconoscerà la cit. di un importante filosofo del diciannovesimo secolo).

Insomma Tommaso è sveglio, simpatico, scafato. Ora vi domanderete: ma quindi parte e si fa tutto in bici? Quanto peserà la bici? Quanto durerà ‘sto viaggio? E quindi quanti km farà in un giorno? E va da solo? E poi dove dorme? E i soldi dove li trova? C’è di mezzo la beneficenza? Da cosa scappa? Ha mica visto Into the Wild? E gli animali non gli fanno paura, specie i cani? Almeno si è portato dietro una pistola? Un gps? E se fora che fa? Ma una fidanzata ce l’ha? C’è modo in cui lo possiamo aiutare? Vorrà essere mio amico? Le risposte a tutte queste domande (tranne una, che secondo me mancava, e spero che mi risponda) le trovate qui: le domande no, e per quello l’ho aggiunte io.

Questo è il suo blog, dove trovate tutte le altre cose – nei racconti, nei video, e nelle foto – del suo viaggio, così assurdo e così “nostro”. Perché siamo invidiosi, no? Si sbaglia, Tommaso, a dire che la gente normalmente non fa queste cose, che le relega a rango di sogni nel cassetto e non ci pensa più. Non sbaglia a dire che normalmente la gente non fa queste cose, sbaglia a dire che poi non ci pensa più. Eccome se ci pensa. E siccome ci pensiamo, alle cose che lui fa e noi vorremmo fare, è bello vederle fatte da uno come lui: le sue salite, le sue discese; la sua fatica. La gente che lo incontra e che lo accoglie ovunque, come lo accoglieremmo noi, perché – parole sue, parole vere – la fatica ha una faccia universale.

 

Weylandt

L’altro ieri è morto un corridore al Giro d’Italia.

Per incastri della vita, è il Giro che sto seguendo meno degli ultimi anni. Così mi sono perso una delle tappe più commoventi della storia del Giro. Le cose che sono successe sono state molto belle, e il ciclismo si conferma avere quella cosa lì che non sai spiegare, ma che lo fa – da sempre – lo sport più pieno di poesia.

È davvero impossibile vedere queste immagini senza commuoversi:

Per quelli che il ciclismo l’hanno imparato da bambini la cosa più commovente, la più sbalorditiva, è un particolare che agli altri non dirà nulla. Gli applausi del pubblico. Strani, sconosciuti, così diversi da quelli che accompagnano i corridori durante le tappe, e di cui siamo tutti abituati a riconoscere lo scroscìo. In quegli applausi dal ritmo inedito, in quella maniera quasi arcana, si legge il rispetto, il pudore, la dignità, tante cose che sembrerebbe banale scrivere. C’è quel qualcosa, quel qualcosa di cui dicevo prima, che ne fa della poesia. Purtroppo, oggi, un epitaffio.

Tot kijk.

«Tatiana!»

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Giorgia Bronzini (da Piacenza, sarà contento il Prof) ha vinto il campionato del mondo di ciclismo femminile. L’Italia era campione del mondo in carica perché Tatiana Guderzo aveva vinto lo scorso anno. Ecco, questa volta Bronzini si era staccata sull’ultima salita, aveva recuperato, e si era ricompattata col gruppo. Era una delle più veloci allo sprint, assieme all’olandese Vos (la favorita), solo che davanti c’erano altre due cicliste: Vos non aveva compagni di squadra, così Tatiana Guderzo – campione del mondo in carica, ricordiamolo – si è incaricata di mettersi davanti a tirare e andare a riprendere le due, giocandosi così qualunque possibilità di vittoria finale. Questo per favorire Bronzini, sua compagna di squadra, che poi ha vinto.

Ecco, questo è il bello del ciclismo, anzi, il bello è questo momento: quando dopo l’arrivo Bronzini grida «Tatiana! Tatiana!»:

Stanotte si correrà la gara degli uomini, l’Italia è la nazionale meno competitiva da diversi anni a questa parte, ma nonostante ciò ha ancora buone chance con Pozzato, Nibali e Visconti. Non ci sarà Ballan, che ha vinto nel 2008. Bettini, che ha vinto nel 2007 e nel 2006, ci sarà, ma come CT, al posto del compianto Ballerini.

Dodici anni fa

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È un post di nicchia, per quei pochissimi. Ma sono i pochissimi giusti.

Allora, dodici anni fa oggi, Marco Pantani faceva la sua più grande impresa. Quella, cioè, di staccare tutti di talmente tanti minuti che poi la cronometro te la puoi fare anche a piedi, ché tanto in bici o a fette in pianura vai più o meno uguale. E arrivare a Parigi in giallo, come succede una volta ogni quarto di secolo: perché per vincere al Tour senza saper andare a cronometro, devi essere forte forte forte in salita, e quasi sempre neanche basta.

Les Deux Alpes, là in fondo e in cima. C’era – ricorderete – Ullrich in maglia gialla, e c’era Pantani che puntava più o meno al podio. C’eravamo anche tutti noi che speravamo che partisse sulla penultima salita – a 50 dall’arrivo – per far saltare il banco, come speriamo sempre e come non succede mai. Invece, quella volta lì, successe. Alla fine ci pensi, e ti rendi conto che negli ultimi 45 anni è l’unico italiano ad aver vinto un Tour de France. Però, accidenti, non dico che ne valga quarantacinque, però se non l’avete mai vista quella tappa, dovete guardarla. (anche se l’avete già vista)

E come si fa? Qui arriva il nostro mastro Borgognoni che ci salva tutti, e – come se nulla fosse – dice che lui ce l’ha la registrazione di quella tappa. Su Friendfeed se n’è parlato un po’, ma è possibile che a tanti di voi, qua fuori, sia sfuggita; e non deve.

Non c’è video più Pirata di questo.

L’ho messa QUI. Così la potete scaricare, e vedervela quando volete. Però meglio subito: c’è la sfiducia di tutti, che vedono Pantani in cattiva forma e Ullrich al meglio, c’è Cassani che suggerisce a Bugno di smettere di correre e fare l’elicotterista, come poi succederà. Ci sono i suggerimenti, «sii prudente» sembrano dirgli.

E poi ci sono le reazioni dello spettatore, tu. Ché quando De Zan dice «è caduto Pantani» ti prende un colpo, anche se lo sai già come è andata, e com’è andata a finire. Insomma, smetto di dire: ecco, buona visione.
(e buon anniversario)

Un saluto al Ballero

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Come ogni inizio d’estate è venuto il giorno della Firenze-Vangile, la classica del ciclismo calmo che facciamo – con mio zio, mio cugino e aggregati – da casa di mio zio a casa dei miei nonni. Non si vince nulla, ma per premio si ha il pranzone preparato da mia nonna che tutti considerano un riscatto degno per il mal di culo accumulato – e per fortuna che ci sono delle forchette migliori della mia!!

Questa volta eravamo in otto, Pietrino, Nicco, Gogo, Claudia e Marco, oltre a noi tre, e l’anno di nascita dei partecipanti andava dal 1959 al 1995, con una predominanza dei più giovani. Il percorso, ‘stavolta sui 65 chilometri, tende ogni anno a variare e ad allungarsi di qualche decina di chilometri, più perché si sbaglia strada, che per una scelta ben precisa.

Uno dei diversivi di quest’anno è stato ispirato dalla fantasia di una vecchina che ci ha indicato una strada che lei «eccome, qualche anno fa la facevo anche io in bici», ma che probabilmente quel “qualche anno fa” risaliva ai tempi della guerra, e ora era tanto sterrata e in mezzo ai campi da far invidia alla peggiore Parigi-Roubaix.

L’altro diversivo è stato invece capitanato da Marco – che è fondatore e presidente del Viola Club Kathmandu, e che di mestiere porta la propria Ballero-bike nel Sahara o sull’Himalaya – e che, appunto, conosceva Franco Ballerini. Così siamo passati dal cimitero di Casalguidi, dov’è sepolto il Ballero, e l’abbiamo fatto nel modo più consono: in bici, dopo aver fatto una mini-rubé.

Ecco, il cimitero dov’è sepolto Ballerini è l’unico che abbia mai visto dove – prima ancora del parcheggio per le macchine – c’è la rastrelliera per le bici. Come dire: amen.

Totogiro

Lo so che è tardissimo per dirlo, ma in fondo si può iniziare a giocare quando si vuole, anche all’ultima tappa: anche quest’anno facciamo il totogiro. Venite, mettete un nome per ogni maglia – rosa, rossa (bleah), verde, e bianca – e due per ogni tappa.

Volendo ci sarebbero anche i punti, da sapere, ma quelli li calcola Luca.

Andate lì e giocate, non vi dovete neanche presentare. Vincere, non si vince nulla: ma di quello non vi dovete preoccupare. Tanto rivinco io.

totogiro.wordpress.org

Oddio, Ballerini

Oddio, è morto il Ballero.

Quel paio di volte che l’avevo visto di persona mi era sempre sembrato una persona immediata, divertente, speciale.
Uno di quelli da osteria, e battuta facile. M’ha proprio stroncato il cattivo umore in gola, questa notizia.

Come ricordarlo? Come dimenticarlo. Il racconto più bello del Ballerini corridore la scrisse Marco:

Forse una cosetta che Hinault non può dire di aver fatto c’è: non può dire di avere vinto entrambe le Rubé, quella bagnata e quella secca. Se lo fai, allora sei laureato. Laureato in Rubé. L’ultimo che c’è riuscito è stato Maestro Ballerini, vincitore tra la polvere nel ’95 e sul fango nel ’98. Corridore forte il Ballero, intendiamoci. Un bel passista da classiche. Peccato non fosse veloce, avrebbe vinto molto di più. Ma sui sassi della Rubé, signori, diventava irresistibile. Un fenomeno. Una sintesi di Merckx e Coppi. C’era da lustrarsi gli occhi, a vederlo. Andava via leggerissimo, agile, ma potente. E gli altri non riuscivano a stargli dietro. Un paio di volte l’ha anche buttata via, la Rubé. Quella più clamorosa fu nel ’93. Era il più forte di tutti. Li ha staccati tutti, in rimonta da dietro. Alla fine, gli è rimasto attaccato solo il vecchio Duclos-Lassalle, uno che già solo dal nome dovresti capire che non ti puoi fidare. Ballerini lo staccava di cinquanta metri ad ogni tratto di pavé. Poi rallentava, e permetteva che il francese gli tornasse sotto. Perché? Perché la strada per Roubaix era ancora lunga. E andare in due è più facile. Ballerini non era ancora sicuro dei suoi mezzi (le corse si vincono con la testa, anzitutto) e temeva che da dietro potessero tornare sotto (ma quando mai? lui volava, gli altri facevano fatica a stare in piedi) e si tenne dietro Duclos-Lassalle. Il quale sbuffava, diceva di non farcela più, di stare per morire, e che in cambio del secondo posto avrebbe aiutato Ballerini. E davvero, Ballerini doveva frenare per aspettarlo ogni volta. Arrivarono nel velodromo con più di due minuti sugli inseguitori. Partì la volata. E Duclos-Lassalle, che s’era risparmiato andando al traino, beffò Ballerini di dieci centimetri. Quando arrivò l’esito del fotofinish, Ballerini si mise a piangere come un vitellino. Credo che non abbia dormito per una settimana. Non è un caso che le due volte che poi vinse il Ballero arrivò da solo. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Partì e staccò tutti in modo imbarazzante (per quelli che rimasero staccati). La seconda volta (Roubaix bagnata) massacrò Tafi (mica un pirla qualsiasi, uno che la Rubé l’ha pure vinta, dopo) lasciandolo a quattro minuti e mezzo. E gli altri non me lo ricordo neanche a quanto. Diciamo che qualcuno arrivò quando lui, il Ballero, aveva già finito di farsi la doccia.

La foto in cui più mi piace ricordarlo è questa, con il suo amico, compagno e corridore Paolo Bettini con indosso la maglia iridata appena conquistata da entrambi. C’ero anch’io, quella volta a Salisburgo, entrambi mi fecero gioire divertito, di quell’euforia calda e casereccia che soltanto il ciclismo può dare.

Ballero Bettini

Un bambino felice

Lo so che per moltissimi di voi questo evento non ha alcun significato, e faticate anche a dargliene uno. Ma oggi è successa una cosa che ha dato un senso alla mia vita, quantomeno alla mia vita su Facebook:

abdujaparov