Meglio mai, che tardi

Ho visto Fitna, un piccolo documentario anti-islamico attorno al quale c’era stata una querelle la scorsa primavera per la mancata messa in onda a causa della paura di ritorsioni, com’era avvenuto per Submission di Theo van Gogh. Anche su internet era stata messo, poi rimosso, poi rimesso. Lo trovate qui, dura 17 minuti, alcune immagini sono forti.

La vicenda di Submission (che invece è qui, sottotitoli in italiano) la conoscete, Theo van Gogh – il regista, e pronipote del pittore – rifiuta la scorta e viene ucciso da un estremista mussulmano, la sceneggiatrice e attrice Ayaan Hirsi Ali – anch’ella minacciata – si salva perché ha la scorta da parlamentare olandese. Il corto – invece – sarebbe la prima parte, di una seconda mai realizzata per la morte del regista. Merita due parole di più Ayaan Hirsi Ali, che è uno dei personaggi più straordinarî del nostro mondo. Ha scritto un libro (mai lapsus fu più azzeccato, avevo scritto senza volerlo “libero”), Infedele, che dovrebbero leggere tutti. Ed è anche un test. Prendete una x persona, fategli leggere l’inizio di “my freedom“, la seconda parte – se non si commuove, se non è paralizzato dalla tensione emotiva, quella x persone è fuori di dubbio un insensibile.

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Fitna, che dall’arabo coranico si traduce come qualcosa di simile a “guerra civile”, vuole essere il presecutore naturale del corto di Theo van Gogh. Ma se Submission era una richiesta d’aiuto, un grido d’allarme, l’insieme più ruvido di queste due cose, ovvero una bestemmia, Fitna è un documento a tesi. È confezionato in maniera irritante, e ha quell’accostamento di immagini e quella melliflua scelta della musica di sottofondo che sono insopportabili in un documentario. Insomma, se non hai già un pregiudizio non ci caschi.

Mi ha ricordato molto Michael Moore. Ora, siccome – ovviamente approssimo, per schematismo – chi segue Michael Moore è piuttosto tenero con l’Islam, mi son domandato: ma come si rapportano gli uni agli altri? Cosa criticherebbe un appassionato di Bowling a Columbine a Fitna? Non sta anche quel documento – il solito ritornello – “enunciando fatti”?

Lo so, non muóre nisciune

Guia Soncini fa un post che mi è quasi liberatorio (e per il quale mia sorella vorrebbe farla ministro dell’istruzione) domandandosi perché nelle scuole non si insegni un po’ di dizione. Dice Soncini – dopo la tenace visione di mezz’ora d’intervista a Villari: ma non è importante distinguere una e chiusa da una e aperta?

Ecco, io me lo sono sempre chiesto come mai la dizione sia così trascurata in confronto all’ortografia: non vedo nessun motivo logico, che non valga per entrambe.
Certo, si potrebbe dire che mi siedo sull’essere fiorentino (che poi, quanto aiuti e quanto danneggi, è tutto da vedere…), però dicevo cortese con la “s” sorda, ho imparato che si dice con la “s” sonora, e l’ho corretto. Dicevo “bigné”, e ora provo a ricordarmi di dire “bignè”. E così via. Non si tratta, ovviamente, di stare lì a cavillare su ogni cosa detta da chiunque, ma di provare a parlare correttamente. Di errori se ne fanno, se ne faranno. E poi l’importante non è farlo, l’errore, ma non sapere che lo è.

Di più, l’importante non è neanche parlare correttamente – potrei negare la leggiardia ruvida del romanesco, usato con gli interlocutori familiari? – ma saperlo fare quando serva: come appunto in un’intervista, o in qualsiasi altra sede più “neutra”.
E non è la solita storia per cui, specie in Italia, la correzione è un’offesa piuttosto che un aiuto: perché se spiego che, essendo toscano, confondevo “tu” e “te” ma ora ho imparato a non farlo, vengo encomiato; se invece considero rilevante la differenza fra dire “bène” e “béne” sono pedante. Io na’a vedo tutta ‘staddifferenza.

Eppure tante persone che hanno una prosa ineccepibile e un’acribia invidiabile (anzi, invidiata) nell’uso dei vocaboli, trascurano completamente quest’altro aspetto: ce ne sono moltissimi, ma il primo che mi viene in mente è lui, ché l’ho letto appassionarsi a disquisizioni linguistiche (una così valevole da essere finita negli scritti altrui) e inorridire al raddoppio di un plurale straniero; ma che ascolto – alla radio – trascurare completamente le “e” e le “o” che si dovrebbero dire aperte o chiuse.

Credete che sia questione di non essere troppo giustizialisti? Ci ho pensato, io credo di no: il giustizialismo è un metodo, non un’applicazione di esso, e basta essere un po’ consapevoli dei rischi del precisismo pirla, sempre per usare le parole di quell’altro, per non fare la fine dei maniaci.

Detto questo, vale il titolo.

Legittimamente

Se non volete leggere questo post di Francesco perché vi interessa o perché vi incuriosisce, dovete farlo perché vi scamperebbe dalla lettura della metà delle cose che scrivo io: è tutto lì.
E se neanche la prospettiva di saltare il 50% delle sbrodolate del presente blog vi è sufficientemente appetibile, beh, trovatevela voi una ragione.

Però dovete davvero.

Gli zingari e i furti di bambini

In Italia non c’è un solo caso di zingaro condannato per “furto dei bambini”. Voi lo saprete già, io l’ho scoperto qualche mese fa. E me ne vergognai abbastanza. Come facevo a essere così disinformato su di un fatto tanto evidente? Ogni volta che mi tornano in mente i due casi di quest’anno, quello di Ponticelli e di Catania, tanto pompati al tempo delle traballanti accuse, quanto trascurati ora che si sono rivelati due falsi, beh, mi assolvo un pochino per la mia precedente (e comune, deduco)  ignoranza. Possibile che una notizia come questa non “sfondi”, mai, sui media?

In Occidente i Rom, e gli zingari in generale, sono uno degli ultimi serbatoî al quale si possano attingere rigurgiti razzisti e teoremi spregevoli senza il rischio della censura sociale. Anzi, proprio in virtù di questa unicità, è più facile associare loro un qualsiasi epigono del più bieco dei luoghi comuni: «io non sono razzista, ma… gli zingari».

Però la cosa più aberrante del comune modo di rapportarsi ai Rom – e forse la questione ha tratti comuni al rapporto con l’Islam – è che qualunque approccio è totalizzante: o si accusano in toto (spesso), o si difendono in toto. E se l’intollerante di turno che agita la condizione delle donne all’interno dei campi nomadi non lo fa interessandosi veramente a quelle donne, ma solo per dare una legittimità camuffata ai propri accenti di disprezzo; è terribile (quasi altrettanto) l’atteggiamento contrario: quello che – per il benigno intento di difendere il prossimo dal razzismo – trascura gli orrori, ammantandosi di quel rispetto-per-le-altre-culture che non considera che il rispetto per una cultura, così, è il rispetto per chi ha la forza, in quella cultura.

Nelle mie girovagazioni lavorative e volontarie di questo periodo, ho avuto fugaci rapporti anche con i Rom, e con le loro storie raccapriccianti: Danja, una ragazza bosniaca, che a 13 anni era stata venduta al marito per svariate migliaia di euro; il suo valore era dato dal fatto che fosse bella giovane e – soprattutto – vergine, assente questa condizione il suo prezzo sarebbe stato esattamente la metà. Costretta ad avere rapporti sessuali, assumere droga (per non farlo, poverina, si chiudeva in bagno per ore), andare a rubare, era poi fuggita. Sapendo che l’unica possibilità di sopravvivenza, era quella di vivere per sempre in una struttura: diversamente uno dei duecentocinquanta parenti del marito l’avrebbe riconosciuta e uccisa. Tutto questo succeva, e succede quotidianamente, in Italia. Raccontava di come, quando arrivava la polizia per i ciclici sgomberi, lei – che viveva rinchiusa a chiave dentro una roulotte – cercasse di attirare l’attenzione dei poliziotti, e nessuno la degnava d’uno sguardo amichevole.

Ecco, se vi viene da pensare “vedi? Alla fine si torna lì, che sono questi Rom a essere dei prepotenti, delinquenti e incivili”, pensate che anche Danja è una Rom – non l’ha deciso, ci è nata – e non ha fatto nulla per meritare il vostro disprezzo. Anzi.